il 1200 e 1300

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Periodo svevo
Sotto gli Svevi, Luceria riprese ben presto il suo ruolo centrale, con l’arrivo dell’imperatore Federico II e dei musulmani. Nel 1223, Federico II, a seguito della lotta armata fra i musulmani e le truppe sveve, dalla Sicilia e più precisamente dalla roccaforte di Jato, deportò a Luceria numerosi musulmani, una vera e propria colonia saracena; riuscì però a renderli inoffensivi, lasciandoli liberi di sviluppare le loro attività (fabbricanti di tappeti, tende, ceramiche, ma anche agricoltura e artigianato), fornendo ovviamente all’Imperatore temibili guerrieri, fondamentali per le varie lotte contro la Santa Sede. I saraceni furono liberi anche di professare la propria religione islamica: la tradizione vuole che non si contassero più di dodici abitanti di religione cristiana nel 1239. Vennero costruite moschee e scuole coraniche e la città fu detta “Luceria Saracenorum”. A tal proposito, alcuni storici locali sostengono che i pochi cristiani che rimasero in città, e il vescovo Bartolomeo, furono costretti ad adeguarsi alla presenza musulmana e, per paura di eventuali saccheggi, nascosero in un posto sicuro chiamato Tribuna la venerata statua di Santa Maria. I vari ordini monastici che si erano stanziasi sul territorio, furono estromessi dal regno.
Nel 1233 Riccardo di San Germano riporta che l’Imperatore decise di fortificare con mura la città. Ed è probabilmente in quegli anni che, su Colle Albano, precisamente nell’angolo nord-est, Federico II fede erigere il suo regale Palatium anche se oggi, tra la ricchezza dei reperti di origine angioina, si nota ben poco del federiciano castrum seu palatium. È tuttavia ancora osservabile lo zoccolo perimetrale e, per quel poco che ne resta, anche le mura a scarpa e la presenza di feritoie ad uso degli arcieri. La parte inferiore dell’edificio (quella più propriamente difensiva) doveva avere funzioni di rifugio estremo in caso di pericolo. Anche la residua pavimentazione del cortile interno, con la particolare cura delle rifiniture, è attribuita all’epoca di Federico di Hohenstaufen. In conseguenza degli arrivi, il borgo si era sviluppato verso il castello e, per questo, furono ricostruite le mura andate in rovina, estendendone fino a Colle Albano, inglobando al suo interno il Palatium imperiale, con l’eliminazione di Porta Albana.
Lūǧārah (o nella variante in arabo Lūshīra), conobbe in quel periodo una notevole fioritura, tanto che ben presto venne paragonata, dai viaggiatori e dagli storici musulmani di allora, alla Cordova dei califfi.[senza fonte] Fu aperto un Istituto Scientifico, sotto la guida dello stesso Federico II, nacquero anche fabbriche di armi, ma anche botteghe dell’ottone. Diversi furono gli animali esotici, dai leoni agli elefanti, dai cammelli alle aquile e ai falchi, rapaci adorati dallo stesso imperatore.
Le visite dell’Imperatore accertate nella sua Luceria Saracenorum risalgono all’Aprile 1231, Dicembre 1232 (forse fino a Gennaio 1233), Aprile del 1240, Ottobre del 1241, Gennaio 1242 e al Novembre del 1246. Ma non si può escludere che l’Imperatore, nei suoi numerosissimi periodi in Capitanata, avesse visitato Lucera anche in altri momenti.
La Lucera musulmana restò fedele alla casa sveva e, dopo la morte di Federico II nel 1250, avvenuta nella vicina Fiorentino, servì Corrado IV di Svevia. In quegli anni, all’interno del palazzo imperiale, assunse potere il servo Giovanni Moro che, grazie alle simpatie di Federico II, era riuscito ad entrare nell’élite imperiale col titolo di barone, detenendo diversi possedimenti. Corrado IV lo fece comandante del castello di Lucera ma, alla morte dell’Imperatore nel 1254, Giovanni cercò di impadronirsi del potere: finse di dare ospitalità a Manfredi di Sicilia (che non si riteneva sicuro di fronte al papa), ma poi, affidando provvisoriamente il governo della città a Marchisio, si recò a Roma per mettere se stesso e Lucera nelle mani di Innocenzo IV. All’arrivo di Manfredi, il popolo lo accolse trionfalmente e Marchisio non poté fare altro che sottomettersi giurandogli fedeltà. Al ritorno da Roma, Giovanni non venne fatto entrare in città; cercò di fuggire ad Acerenza, dove però venne ucciso dai saraceni, che portarono la sua testa a Lucera e l’appesero all’ingresso di Porta Foggia.
Papa Alessandro IV, scontento dai fallimentari tentativi di conversione degli infedeli portati avanti dai frati mendicanti inviati a Lūǧārah, mirando anche a conquiste sul Regno Svevo, nel 1255 emise la bolla Pia Matris contro Manfredi e i Musulmani di Lucera, inneggiando ad una crociata contro di essi. Una volta assicuratasi la fedeltà della colonia saracena, Manfredi, chiamato anche Sultano di Lucera (1258-1266), poté arruolare un ingente esercito e muovere guerra all’esercito pontificio, che sconfisse presso Foggia. I saraceni di Lucera combatterono al fianco di Manfredi fino alla Battaglia di Benevento del 1266, che segnò la morte del sovrano svevo e l’entrata in scena degli Angiò.

Periodo angioino
Tra il 1268 e 1269 la Santa Sede scese in campo contro “Luceria Saracenorum”. Nel febbraio 1268 papa Clemente IV indisse una Crociata per debellare tutti i musulmani presenti nella città, unica roccaforte dell’Islam dell’intero meridione. Molte le pressioni che ricevette Carlo I d’Angiò affinché eliminasse ogni saraceno presente nella città. L’assedio avvenne dal 20 maggio al 12 giugno. Lūǧārah rifiutò l’obbedienza a Carlo I d’Angiò e resistette energicamente agli assalti dei soldati angioini, restando fedele all’ultimo erede degli Svevi, Corradino. Questo si diresse verso Lucera e Carlo, lasciato l’assedio, gli andò incontro: i due eserciti si scontrarono il 23 agosto 1268 nella Battaglia di Tagliacozzo, dove, pur essendo in netta inferiorità numerica, l’esercito guelfo angioino ebbe la meglio sui ghibellini svevi. Corradino riuscì a fuggire ma, tradito, fu catturato nella campagna romana e giustiziato a Napoli il 29 ottobre 1268. A seguito di ciò, Lucera continuò a resistere per altri dieci mesi. Carlo I riprese l’assedio di Lūǧārah nella primavera nel 1269, con ordigni d’ogni genere e con macchine d’assalto. In mancanza di viveri, i saraceni uscivano dalla città per raccogliere erbe di cui cibarsi, ma cadevano nelle imboscate dei Francesi e venivano trucidati, o venduti come schiavi. Lūǧārah viene espugnata per fame il 27 agosto 1269. I cristiani ribelli e i capi dei saraceni verranno torturati ed uccisi, mentre il resto della popolazione si sottomise spontaneamente. Dopo dieci giorni, nonostante le pressioni della Santa Sede, Carlo I d’Angiò, seguendo l’esempio di Federico II, adottò una politica più tollerante. Anziché uccidere o esiliare i saraceni, cercò di stringere con loro un rapporto di fiducia: perdonò le loro colpe, privandoli però della libertà di governarsi seguendo le leggi islamiche, e gravando su di essi un pesante tributo di guerra annuo di quattromila once. I saraceni che, per evitare di sottomettersi agli Angiò, cercarono di fuggire dalla città, andarono incontro alla morte.
Carlo I d’Angiò, nella riorganizzazione della città, ridusse il suo perimetro e, nei pressi del Palatium federiciano, fece realizzare una fortezza, con una maestosa cinta muraria a ridosso del margine collinare di Colle Albano. I lavori furono seguiti da Pierre d’Angicourt, progettista di fortificazioni, e dai magistri carpentari Riccardo da Foggia e Giovanni di Toul; i lavori durarono quasi quindici anni (1269-1283). La muraglia fu dotata di 13 bastioni quadrangolari, 9 torri pentagonali, e 2 torri cilindriche, una detta del Leone (o del Re, dalla tradizione popolare), e l’altra più maestosa detta della Leonessa (o della Regina, dalla tradizione popolare). L’accesso alla fortezza era regolato da 4 porte: Porta Troja a sud, Porta Fiorentino a nord, Porta Guardiola a ovest, e Porta Luceria a Est, verso la città. Per separare la fortezza dal centro abitato fu scavato un profondo fossato difensivo e creato un ponte levatoio per collegare le due parti. All’interno della fortezza, fu edificato il nuovo palazzo residenziale, una cappella e decine di abitazioni, che servirono alle numeroso famiglie di origine provenzale che il re fece stanziare all’interno della fortezza. La convivenza con i saraceni durò ben poco, in quanto le famiglie di Provenza preferirono allontanarsi dalla città, trasferendosi nella vicina Valmaggiore (ossia nell’alta valle del Celone) ove fondarono i borghi di Faeto e Celle di San Vito, i cui dialetti locali appartengono tuttora all’unica minoranza francoprovenzale in Puglia.
Alla morte di Carlo I d’Angiò, gli succedette il figlio Carlo II di Napoli, detto lo zoppo. Questi, nell’anno del primo Giubileo (1300) indetto da papa Bonifacio VIII, organizzò la “Crociata Angioina”. L’impresa, pianificata in gran segreto, è affidata ad un suo fedelissimo, il miles Giovanni Pipino da Barletta, Maestro Razionale della Magna Curia. Secondo gli storiografi locali d’età barocca, nel giorno 15 agosto, solennità dell’Assunta, Pipino avrebbe dato ordine ai suoi soldati di comunicarsi per prepararsi degnamente allo scontro, facendo atto di giuramento alla Beata Vergine che, se gli avesse concesso la vittoria, avrebbe dedicato al suo nome la città (in realtà fu il re a darle il nuovo nome). Dopo un primo scontro vittorioso con i saraceni in armi, i soldati datisi al saccheggio, e frugando per ogni dove, trovarono in una lammia sotterranea l’antica statua della Vergine, portandola in processione come segno di buon auspicio. Dopo qualche giorno, Lūǧārah venne definitivamente conquistata con la forza e le ultime resistenze vinte il 24 agosto (festa di San Bartolomeo). La tradizione locale vuole che la Vergine Maria sia scesa in campo a favore degli angioini, osteggiando le truppe saracene con immensi sciami di moscerini. Le mura e le moschee furono abbattute e i saraceni lucerini in parte massacrati e in gran parte espulsi, per essere poi catturati e venduti come schiavi, o costretti a convertirsi al Cristianesimo.

Lucera, di lì a poco, fu ripopolata di abitanti cristiani provenienti dalle varie province peninsulare del Regno di Sicilia, specie dalla Calabria, e anche da fuori, e rinominata “Civitas Sanctae Mariae” (Città di Santa Maria). Venne fondata la Cattedrale dell’Assunta, la cui costruzione è attribuita a Pierre d’Angicourt. Anche lo stemma della città viene fatto risalire a questo periodo: un leone passante, che rappresenterebbe re Carlo II, tenente con le branche anteriori un vessillo con l’effigie della Vergine Patrona.

Nel 1304, Carlo II d’Angiò giunse a Lucera e, come vuole la tradizione, donò simbolicamente le chiavi della città alla statua della Vergine, alla quale sua moglie Maria d’Ungheria offrì una collana d’oro. La statua, in base alle recenti indagini storico-artistiche, è di fattura angioina, ascrivibile ai primi del ‘300, e quindi non può essere la stessa statua che la tradizione storiografica locale ritiene sia stata nascosta nel periodo svevo. In onore dell’Assunta, invocata col titolo di Santa Maria Patrona di Lucera, e detta anche Santa Maria della Vittoria, Carlo II istituì la festa da celebrarsi ogni anno con la massima partecipazione del popolo.

Nell’antico borgo furono riammessi ordini monastici cacciati dal regno da Federico II. Oltre la Cattedrale dell’Assunta, infatti, furono edificate altre quattro chiese e affidate proprio alla cura degli ordini mendicanti, chiamati dal re angioino per dare un nuovo volto cristiano alla città:

  • San Francesco, affidata ai francescani minori conventuali;
  • San Domenico, affidata ai domenicani;
  • San Leonardo, affidata agli agostiniani;
  • San Bartolomeo, affidata ai celestini.

Nella città di Santa Maria fu istituita una nuova Zecca[senza fonte] e ai suoi abitanti fu dato il privilegio di appartenere direttamente al re, senza poter essere infeudata (regia demanialità), e inoltre fu assegnato ad ogni famiglia una quota del terraggio, i cui frutti dovevano essere sia agricoli e sia di pascolo.

A Carlo II di Napoli succedette il suo terzogenito Roberto, in quanto il primogenito Carlo Martello divenne re d’Ungheria e il secondogenito Ludovico d’Angiò, per alcune fonti nato nella fortezza di Luceria[senza fonte], intraprese la vita ecclesiastica, prima come frate francescano e poi come vescovo di Tolosa; oggi è invocato quale Santo.

Nel 1314 si parla di ben undici chiese povere: Santa Maria Maddalena, San Martino, Sant’Angelo, San Giacomo, San Paolo, San Marco, San Matteo, San Lorenzo, San Pietro, Santa Lucia e Santa Caterina.

Roberto d’Angiò fece giungere da Avignone (il papato in quegli anni non era a Roma) a Santa Maria il vescovo domenicano Agostino Casotti di origini dalmatiche, che morì il 3 agosto 1323. Il corpo del vescovo fu tumulato nella chiesa di San Domenico.

Nel 1341 nella città di Santa Maria si contavano 13 chiese. Oltre ai conventi di San Francesco, San Domenico, San Leonardo, San Bartolomeo, si aggiunse la chiesa di Sant’Antonio Abate.

Altre tre statue della Vergine Maria, simili a quella della Patrona, furono collocate nelle più importanti parrocchie della città:

  • Santa Maria della Vittoria, nella parrocchia di San Giacomo Maggiore Apostolo;
  • Santa Maria della Misericordia, nella parrocchia di San Lorenzo Martire;
  • Santa Maria della Libera, nella parrocchia di San Matteo Apostolo.

In questi anni vide la luce l’ospedale delle Cammarelle e le mura furono completamente riedificate e allontanate dalla fortezza di Monte Albano con l’accesso alla città regolato da cinque porte:

  • Porta Troja, a sud;
  • Porta Sant’Antonio Abate, a nord ovest (si apre nei pressi dell’omonima chiesa, verso Colle Belvedere);
  • Porta San Severo, a nord est (probabilmente cambia denominazione, dato che in alcune fonti si ritrova Porta Casalis Novi in direzione Casale Novo, un centro nei pressi di San Severo);
  • Porta San Giacomo, ad est;
  • Porta Foggia, a sud est.

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